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Musica, 1/2012 |
Paolo Bertoli |
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Fidelio
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***** |
Ci
sono opere nelle quali il non detto, l'accenna to, il pregresso o l'«
assente » costituiscono parte fondamentale del l'atmosfera che finisce
per avvinghiare ed affascinare l'ascoltatore, anche al di là della sua
stessa consapevolezza. L'« Aria del catalogo », ad esempio, contiene in
un'apparentemente arida sfilza di numeri l'intera vita «attiva » di
Don Giovanni e I'affannarsi di Leporello a seguire il padrone non solo «
in Ispagna » ma anche in « Lamagna » (conte stabilito una volta per
tutte nell'ultima edizione critica (della Neue Mozart-Ausgabe), Italia,
Francia... e Turchia: pennellata di esotismo lanciata quasi nel vuoto,
messaggio subliminale carico di un erotismo che Shéhérazade o la Danza
dei sale veli gli fanno un baffo. n si pensi alla Marchesa Attavanti,
che mai appare in Tosca ma a ben vedere è il « motore immobile » di
tutta l'azione (Angelotti, Il chiave, la cappella, il ritratto, il
ventaglio). Per non dire di Buoso Donati: un cadavere comico-in scena -
che c'è di più o-sceno? - con dietro tutta una vita per noi oscura
(Dante non ci fornisce lumi maggiori) e con i ogni probabilità colma
d'intrighi, capace di aizzare una schiera di parenti-serpenti
renti-serpenti e un'orchestra-ancor più-serpente in una ridda comico,
cinica da vietare ben oltre i diciotto. ! Le ulteriori dimostrazioni
sarebbero tantissime. Certo, Mozart e Puccini erano drammaturghi
musicali assai più scaltri e sofisticati di Beethoven: pochi eccentrici
avrebbero qualcosa da obiettare a siffatto rilievo. In Arte però non
tutto è consapevolezza; così i « misteri » del Fidelio non solo attirano
l'attenzione dello smaliziato ascoltatore postmoderno, ma a ogni nuova
occasione acquistano sempre maggior centralità. Qual era il passato dei
due felici coniugi? Che lavoro facevano, erano forse nel
controspionaggio? Perché mai Pizarro ce l'aveva così tanto con
Florestan? Perché - nonostante ciò - non aveva mai visto né conosciuto
la di lui diletta moglie, neanche dipinta (come l'Attavanti), tant'è che
quando se la ritrova di fronte un seppur flebile sospetto è lontano
dallo sfiorarlo? Per quale recondita ragione Florestan era amico
fraterno di Don Fernando (che però si era guardato bene dall'attivare
prima qualche seria indagine sulla sua scomparsa)? Com'è arrivata lì
Leonore, per mezzo i che informazioni, ottenute da chi, e con quale
curriculum vitae era riuscita a farsi assumere - magari a tempo
indeterminato, beata lei - da Rocco? Chi sono effettivamente i
prigionieri, e chi i liberatori? Per-ché mai, con soltanto quattro
frasi, non mettere a posto la storia d'amore fra Martelline e Jaquino e
farli benedire come Dio comanda dal padre di lei, anziché lasciar cadere
l'intreccio secondario nel vuoto? (nemmeno nei film di Totò tipo « I
tartassati » si trascura cotale aspetto). Eccetera.
Sia chiaro,
tutto ciò può acquistare di volta in volta maggiore o minore rilevanza,
perfino divenire del tutto ininfluente: non a caso il Fidelio può essere
restituito in chiave granitica-mente « mitologica » (vedi
Knappertsbusch) o al contrario in chiave « umana, troppo umana » (vedi
Bernstein); e i conti - nonostante tutto - finiscono per tornare. Ma
l'Abbado di oggi cosa fa? Scatena tutti questi torbidi pensieri e queste
fantasie perché è capace, con saggezza ingenua e sensibilità sopraffina,
di mettere a nudo le contraddizioni di un Beethoven così impregnato
d'alti ideali da trascurare la logica più elementare. Perciò, da una
parte la lettura del maestro milanese si muove - assai coerentemente -
sulla falsariga del doppio ciclo sinfonico beethoveniano registrato per
DG, alla testa dei Berliner (in studio e poi dal vivo a Roma): tempi
spediti, straordinaria trasparenza e agilità orchestrale, fraseggio
variegato e nervoso, febbrile e guizzante incisività ritmica. E - oltre
a ripulire la partitura da ogni residua scoria wagneriana «di
tradizione, - è chiara la sua volontà di conferire massima tensione
narrativa all'azione drammatica: un fatto confermato dall'omissione
dell'Ouverture Leonore n. 3 quale normalmente ben accetta anticamera
sinfonica alla scena conclusiva. Dall'altra il « doppio suono »
dell'orchestra, ora snella e cameristica, ora massiccia e possente come
un maglio, ci mette sull'avviso. Fidelio non è un'opera: sono due opere
sovrapposte. Nella prima agiscono personaggi veri e vivi, carichi di
timori e desideri (legittimi o illegittimi, minuscoli o immensi); nella
seconda trovano luogo aspirazioni universali: amore, fedeltà, libertà,
fratellanza, avversione alla tirannia, volontà di giustizia. Su tale
doppio binario si muovono infatti le interpretazioni di tutti i cantanti
qui impegnati, perennemente in bilico fra puerilità disarmante e slanci
sublimi, fra astrazione e concretezza: e ad ogni numero (si ascoltino
con cura le scene d'assieme) la loro voce cambia, facendosi «strumento»
al pari di un oboe o un violino - basti ascoltare il sublime Quartetto
del primo atto - oppure carne e sangue: di vittima o carnefice, di
contadino o ministro, non importa.
Non va taciuto però come del
tutto fuori luogo risulti l'imbarazzante revisione dei dialoghi curata
da Tatjana Gürbaca, regista dell'esecuzione in forma semi-scenica
allestita alla Konzertsaal di Lucerna (12 e 15 agosto 2010). Un solo
esempio eclatante: « Da quando Fidelio è in questa casa, tutto è
cambiato fuori e dentro di me» diviene «Da quando Fidelio è con noi, il
mondo si è trasformato. I muri sembrano più distanti, il cielo più alto.
Io respiro la Libertà». Un'ingenua popolana infatuata come Marzelline si
trasforma in «pensatrice rivoluzionaria»? La forzatura appare
francamente inaccettabile e meraviglia non poco che Abbado abbia potuto
avallarla. Al di là di ciò, in un Fidelio c corale » come quello in
esame, il contributo di ogni 'partecipante non può essere valutato
singolarmente, ma - necessariamente - in relazione al contesto. La
Leonore . di Nina Stemme, più fragile che eroica, piace proprio per i
suoi dubbi e le sue debolezze, tant'è che quando nel secondo atto
ritrova la determinazione contro il tiranno e infine la gioia del
ricongiungimento, appare assai credibile. Nel sofferto soliloquio di
Florestan, Jonas Kaufmann - già protagonista della discussa edizione di
Harnoncourt in DVD - forse vickerseggia un po' troppo, ma è capace di
una notevole ricchezza di sfumature (il suo « Gott! Welch dunkel hier »,
che sembra emergere direttamente dall'oltretomba, dà i brividi). L'unico
vero punto debole del cast è rintracciabile nel Pizarro di Falk
Struckmann: il baritono tedesco tende speso a forzare l'emissione, in
particolare nel primo atto, e appare tutt'altro che impeccabile anche
dal punto di vista dell'intonazione; ma soprattutto non riesce a
disegnare il suo personaggio con la necessaria perentorietà ed
incisività. Impeccabili, invece, il Rocco di Fischesser, la Marzelline
della Harnisch e lo Jaquino di Stehl, docilissimi strumenti
dell'Abbado-pensiero riassunto qui sopra: come eccellente è Peter
Mattei, un Don Fernando nobile e contenuto che in una semplice frase
coi-ne « Mein Freund! Mein Freund! Der Totgeglaubte?» riesce a esprimere
un concentrato di sorpresa, affetto ed emozione davanti ai quali
togliersi il cappello è d'obbligo. Paolo Bertoli
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