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Classic Voice, ottobre 2011 |
di Elvio Giudici |
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Fidelio
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senza avventurari sulla scivolosa china dell'estetica sociopolitica,
pare indubbio come esistano opere d'arte che alla loro intrinseca
qualità sommino il doppio plusvalore del soggetto e del momento storico,
capace di prolungare la propria eco negli anni a venire. Pensiamo alla
fucilazione degli insorti nel Tre maggio 1808 di Goya, o a Guernica di
Picasso: distanti nel tempo, la cieca oppressione del potere e la follia
della guerra ispirano una stessa rabbia che urla eterna. Si può dir lo
stesso per Fidelio di Beethoven: regolarmente scelto per celebrare una
ritrovata libertà (come nella riapertura postbellica di molti teatri
tedeschi: irrisolto il quesito se gli spettatori s'identificassero con i
prigionieri liberati o con Pizarro sconfitto...), in virtù
dell'archetipo costituito da un deus ex machina che apre le prigioni. A
teatro, però, gli archetipi non possono essere autoreferenziali, per
funzionare debbono inserirsi in contesti precisi: e la reiterata tesi
secondo cui Fidelio sarebbe grande musica e piccolo teatro rientra nel
vasto capitolo dei pigri luoghi comuni ribaditi da allestimenti
abbarbicati alla trama nuda e cruda.
Ci siamo troppo abituati
(rassegnati?) a Fidelio come all'opera in cui, siccome la saldezza
morale s'eleva a teorema, il suono ha da essere turgido, maestoso, le
sue luci e ombre nette, ipercontrastate. Come d'altronde una lunga
tradizione ha voluto la musica beethoveniana in genere, prima che la
riesaminasse capillarmente una corrente interpretativa di cui Abbado fu
tra i capofila: l'interna gerarchia formale mutò significato con il
cambiare dell'architettura complessiva, grazie al radicale ripensamento
di tempi e relativi stacchi, di sonorità e relative dinamiche, con
l'indispensabile corollario del come e del quanto valessero gli
andirivieni reciproci. Le nervature poste a reggere poderosi edifici si
fecero d'improvviso sottili, vibranti di luci; il cupo romanico,
allungandosi nel gotico, non perse forza e maestosità: accentuate, anzi,
dalla grazia acerba, a tratti persino ruvida, con la quale si
contrappuntavano. Abbado ci ricorda fin dalle prime note che la vicenda
si svolge non tanto in una prigione qualsiasi, quanto in una prigione
politica: dove si può sparire per anni ed essere creduti morti. Colori
freddi dipingono questo cortile percorso da refoli vitrei; dinamiche
contrastatissime tirano un arco di sempre crescente tensione, con gli
asciutti, aspri, quasi taglienti profili ritmici mai rilassati e con il
sorriso mai aperto, prossimo piuttosto al ghigno nevrotico. Della sua
fenomenale orchestra (ottoni intonati c'è una meraviglia - Gesù, cosa
sono quei corni! - fiati di un calore e colore da favola, archi di volta
in volta setosi, vitrei, iridescenti, sempre comunque dal nitore
assoluto), Abbado si serve per raccontare divinamente una vicenda che la
perenne pulsione interna non consente mai di rilasciarsi: ma se ne
serve, ancor di più, per rivoltare molti luoghi comuni pacificamente
accettati in materia di suono beethoveniano. Suono che, in una
concertazione di portentosa trasparenza, viene plasmato in modo da far
capire quanto questo universo beethoveniano sia contiguo a Mozart:
quanto entrambi preparino il suono romantico, sì, ma ne siano ancora ben
al di qua. I tempi, elastici come non mai. Fortissimi fatti non di
decibel ma di compattezza. Pianissimi sospesi in un vuoto colmo di
lancinante melanconia, di rabbiosa protervia, di orrore senza fine entro
cui gettare però la fioca luce d'una speranza mai doma. Ma è la
dinamica, soprattutto, a dare il senso a ogni cosa. Talora estrema,
talaltra infinitesima, ma comunque presente e operante in ogni battuta,
a introdurre - laddove meno te l'aspetti - attimi di sbigottita
sospensione: e nell'ambito di un'agogica contrastatissima, la tensione
drammatica si rilascia e si rinserra di continuo costringendoti ogni
momento a riflettere sulle molte ambiguità sentimentali di uno schema
narrativo semplice solo in apparenza. Mai un suono "bello" fine a se
stesso: piuttosto, sempre un suono che significa qualcosa, che rimanda
ad altro, che illumina i molti strati - umani, sociali, politici,
filosofici - di una storia alquanto più complessa di una tribolazione
sentimentale con happy end.
Ecco allora un Quartetto sospeso non
nel magico iperuranio del "tanto bello", ma reso piuttosto una
sbigottita notte della ragione. Il coro dei prigionieri, t'accorgi solo
dopo un attimo che è cominciato, tanto il loro attacco è calibrato su di
un suono strumentale rarefatto in una sospensione sbigottita, che
potrebbe essere da paradiso perduto non fosse per le ombre cupe che vi
s'infiltrano, a suggerire la tragedia più grave, quella della perdita
della dignità: sensazionale, qui come ovunque, l'Arnold Schönberg Choc
effonde un canto senza peso, il sussurro reso urlo agghiacciante alla
Punch senza neppure i suoi spenti colori, drenati in un bianco e nero
portentoso. Il coro finale, spesso alquanto monotono anche perché lungo
e di scansione ritmica assai pronunciata: mai sentito così turbinoso,
esultante, non banalmente giubilatorio bensì vero e proprio manifesto
etico. Dire che Abbado ha fatto sembrare Fidelio nuovo di pacca può
parere eccessivo: però è la sensazione che ho provato io.
Nina
Stemme è una Leonore la qualità del cui canto e ancor più del fraseggio
ne fa la migliore oggi ipotizzabile, al pari del Florestan di
Jonas Kaufmann con la sua voce scura, morbida, che s'espande lungo una
linea di sicurezza, facilità e intensità espressiva tutte fenomenali.
Il resto del cast è invece soltanto buono: dal Pizarro un po' ingolato
(efficacissimo però nell'accento) di Falk Struckmann, al notevole Rocco
di Christof Fischesser, al Fernando di Peter Mattei, alla coppia di
ragazzi, benissimo scelta quanto a pasta e stile vocale eminentemente
mozartiani, ma che benissimo purtroppo non canta. Ma è l'orchestra, a
dare il senso a tutto, a lanciare con forza inaudita quel messaggio di
speranza nei valori dell'uomo che società ingiuste possono mettere in
discussione ma mai vincere del tutto. Fa bene al cuore e alla mente,
ogni tanto, riascoltarlo: e con simile perentoria certezza.
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