Classic Voice, Feb 15, 2016
Elvio Giudici
 
Puccini – La fanciulla del West
 
Il problema di certi spettacoli è che non sai bene quanto è farina del sacco registico e quanto di quello personale di chi sta in palcoscenico. La Minnie di Nina Stemme, che qui è quasi una copia carbone della Misery di Kathy Bates, dalla femminilità impacciata tanto quanto è invece agile il cervello che l’ha resa tenutaria dell’unico bar della zona; e che quando si lascia andare provandosi a fare la vamp, diventa un’assatanata con l’occhio spiritato ma subito dopo rientra nei suoi panni truffando con consumatissima abilità e travolgente violenza il pur non sprovveduto Rance: è così grazie a indicazioni precise di Marelli, o è la Stemme che se la cuce addosso come un abito su misura? E Johnson così bamboccione, così “can di pelo fino” ovvero piacione ragazzotto viziato che deve gestire un gioco più grande di lui fingendo di capitare per caso al bar al fine di turlupinare quell’ingenua e derubarla, ma le sbaglia quasi tutte ivi compreso il “beau geste” di uscir fuori nella tormenta: Marelli lo fa perché sapeva di avere a disposizione un Kaufmann capace d’incarnarlo alla perfezione, oppure vien fuori diciamo così di sguincio “quasi ex abrupto” come direbbe Figaro?

Il sospetto c’è, perché attorno al debordante carisma dei due si stende la solita palude di tutte le Fanciulle all’infuori di quelle di Carsen e Lehnhoff: gestualità stereotipata, impaccio nei movimenti, uso dello spazio molto a spanne. E Gesù, quel finale! Tutti d’accordo a sapere ormai che l’happy end di quest’opera non è happy per niente, e anzi l’avviarsi mano nella mano verso il tramonto anticipa tanti finali western intrisi di malinconia e solitudine, in questo caso quelle del banale quotidiano che si lascia indietro l’eccitazione della frontiera: ma Carsen e Lehnhoff impiegano la metafora cinematografica da autentici maestri quali sono, e invece qui cala dal cielo (quale? quello della Provvidenza, della pubblicità del cinema fantasy, della réclame?) una panciuta mongolfiera, i due ci salgono rigidi come baccalà, e tutti attorno a fare ciao ciao. Penoso.

Welser-Möst dispensa macigni di decibel alternandoli a bastoncino di zucchero filato, in pura gloria del puccinismo eterno assassino di Puccini. I comprimari sono uno peggio dell’altro con l’eccezione del Wallace di Alessio Arduini, invisibile giacché ne udiamo il canto da un mangianastri: senso della parola zero, articolazione italiana laboriosissima, linee vocali dure e sgraziate. Tomas Konieczny in aree nordiche canta addirittura Wotan, ma con una voce che non è inadatta: semplicemente, non è una voce ma una fabbrica di suonacci in libertà.

Sicché, questo dvd si riassume unicamente in Nina Stemme e Jonas Kaufmann: che sono grandi, anzi grandissimi, anzi i migliori oggi proponibili (e magari anche non solo oggi, se stiamo non solo sul fronte vocale ma anche in quello espressivo), ma una delle principali ragioni per le quali l’opera di oggi riesce spesso più interessante della passata, è che sempre più stucca l’antico cliché della Voce nel Deserto.
 






 
 
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