L'opera, novembre 2012
Giancarlo Landini
 
Bizet, Carmen
Di buone intenzioni è lastricato l'inferno. Sir Simon Rattle è uno dei direttori più quotati dei nostri giorni. I Berliner - una delle migliori orchestre del mondo - danno lustro al suo blasone è suonano meravigliosamente. Avete dei dubbi? Questa Carmen offre almeno un centinaio di esempi di superbe sonorità. Basterebbero quelle della superba sezione, degli ottoni che da sola fa la gioia di qualsiasi impianto alta fedeltà. Ogni dettaglio è meraviglioso. Gli archi sono ariosi, pieni nella cavata, avvolgenti nel timbro.

Gli strumentini si fanno sentire con invidiabile precisione, concorrendo a creare una tavolozza cromatica affascinante per chi pensa che Carmen sia una sinfonia. Ma questo è il punto. La Carmen non è una sinfonia. È teatro: carne e sangue. Sia che la si esegua nella versione opéra-comique sia che, come il Karajan dell'edizione Rca (Price-Corelli), vi si cerchi una sontuosità quasi straussiana. Intanto bisogna segnalare che Rattle non sembra avere le idee chiare in partenza. Adotta la versione francese (revisione Oser), ma poi le presta una dimensione sinfonica che non ha nulla da spartire con lei. Si abbandona ad un gesto dilagante e dirige i diversi numeri come se fossero i movimenti di una suite, badando ad illustrare la loro architettura sonora, e non cerca quella teatralità, scarna, essenziale e nuova che assicurò ed assicura a Carmen un posto speciale nel repertorio. Fa testo il finale del II Atto, dove il concertato che lo chiude è diretto con indiscutibile precisione, con ampiezza di suoni ma senza che emerga il dramma. È lì che avviene la svolta esistenziale di José, il punto di non ritorno. Allo stesso modo nel finale del III, nonostante Ratte disponga del migliore Don José dei nostri giorni, si lascia sfuggire la situazione. Mentre il tenore canta, «Je te tiens», come solo lui oggi sa farlo, il direttore sembra impegnato a cavare giuste sonorità dalla sua orchestra, giuste però per una sinfonia o un concerto, ma prive di quell'urgenza drammatica che il teatro e la scena richiedono.

Non c'è tensione, non c'è dramma, non c'è suspense. Ma nelle corde di Rattle non c'è neppure l'arte del paesaggista. Il Preludio del III Atto è privo di mistero, mentre tutta la sfilata che apre il IV Atto risulta inerte, con effetti quasi caricaturali là dove il ritmo si fa serrato.

Si rimane poi stupiti per la discutibile scelta di tre quarti dei protagonisti. La Kozena va ad inserirsi nel filone delle Carmen minimaliste, alla maniera della Berganza o della von Otter. Purtroppo la Kozena è una voce linfatica, modesta nel timbro, limitata nei colori. Canta con correttezza, ma mette il suo strumento al servizio di un fraseggio frigido che sfiora il personaggio e mai lo penetra. Manca l'appuntamento con tutte le grandi pagine: la sua Habanera non è sensuale, la Seguidille non è insinuante, la Chanson del II Atto non e orgiastica, nella scena delle carte manca di mistero e di un grave decente, risultando una delle più deludenti interpreti dell'intera discografia dell'opera di Bizet.

La Kühmeier e Smoriginas sono due tipici prodotti da star system, ma di cui dopo averli ascoltati non vi ricorderete né il timbro né i colori, con in più l'aggravante di una certa fatica di Smoriginas sugli acuti. Basti il Duetto del III Atto, dove il confronto con Kaufmann è micidiale.

Rimane Jonas Kaufmann. È oggi uno dei tenori di maggior spicco, per l'arte del canto ed anche per il fascino di una voce molto singolare, certo non latina, ma capace di affrontare il repertorio con moderno gusto e grande efficacia drammatica. Il suo modello sembra essere Franco Corelli. Ne deriva un José che di atto in atto si fa via via più intenso e drammatico. Ma rispetto al grande collega italiano è stilisticamente più corretto con un canto scevro di portamenti. Si può dire che Kaufmann riesca ad affrontare la vocalità della Carmen rispettando le caratteristiche specifiche del canto francese, ma non perdendo di vista quanto la tradizione latina ha saputo fare nell'intuire che il capolavoro di Bizet apriva la strada ad esiti diversi, oltre i limiti dell'opéra-comique.

Purtroppo non si può fare Carmen da soli e non si può essere un José di riferimento se si deve essere il partner di una Carmen sbagliata, di un Escamillo appena sufficiente e di una Micaela alquanto generica, con in più un direttore che sembra del tutto indifferente alle sollecitazioni del dramma. Non serve eseguire un'affascinante «Romanza del fiore», se per arrivarci dobbiamo passare attraverso una scena della seduzione che sta a metà tra il goffo e il glaciale, con l'aggravante di un accompagnamento irreprensibile e, in quanto tale, sbagliato. Al loro posto gli altri.

L'incisione è allo stato dell'arte con scena sonora spaziosa che permette all'orchestra di emergere in tutto il suo inutile splendore. Tanta perfezione non fa che aumentare la nostra delusione. Come dire che quella dei tecnici è fatica sprecata.

 






 
 
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