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Classic Voice, settembre 2012 |
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Bizet, Carmen
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L'involucro
sonoro con cui Rattle e i suoi Berliner avvolgono questa Carmen è formato
extralusso, ma il contenuto è di plastica. Capolavori di dinamica (le
aperture degli atti terzo e quarto, molti interventi corali a partire da
quello delle sigaraie), di colori (nel second'atto in ispecie), di ritmo (un
Quintetto che in termini d'esecuzione quasi eguaglia quello di Abbado nel
prefigurare Stravinskij): ma capolavori costruiti al computer, nota dopo
nota, algidi nella loro totale assenza d'ogni sia pur minima traccia di vita
teatrale. Impossibile, d'altronde, con la quasi totalità del cast assemblato
a partire dalla protagonista. Se è vero che "i figli so' piezzi 'e core",
altrettanto vale per le mogli. Cosa potesse accostare la vocalità tutta
ricamini al piccolo punto di Magdalena Kozena - alias signora Rattle - alla
scrittura e soprattutto allo spirito di Carmen, è mistero dirimibile solo
dal cieco affetto maritale. Voce da zanzarina, e questo magari pazienza. Ma
voce senza un colore che uno, quindi monotona come la pioggia. Dinamica
pressoché inesistente, piallata in mezzoforti perenni lungo una linea fissa
perché bloccata in gola, che giù è aria , calda e su solo strilletti,
peraltro tutto un tocca e scappa incapace com'è questa emissione di
sostenere anche il più inoffensivo degli acuti. Accento che gioca
perpetuamente la carta della finesse, come se bastasse non essere plateali
per rendere la complessità di simile personaggio: di fatto una rigida
signora tutta cianciafruscole accentali, d'eloquio molto chic ma contenuto
espressivo a temperatura dell'azoto liquido. Dopo solo qualche minuto, la
memoria tomava agli orridi terremoti uterini di Marilyn Home e quasi quasi
vi stendeva sopra un velo di nostalgia, perché se non altro una brada
vitalità la mostravano.
Gena Kühmeier riporta Micaela alle figurette
scialbe e ciangottanti d'una tradizione decotta: senza neppure cantarla
troppo decorosamente come almeno usavano fare gli usignoletti d'antan.
All'opposto, Kostas Smoriginas apre i suoni, li vernicia di nerofumo
inventandosi chissà mai quale spessore macho, riuscendo invece solo una
grottesca caricatura. Ruoli di fianco all'insegna della più piatta routine.
Tutto solo, e quindi spaesato oltre ogni dire, il povero
José di Kaufmann: tanto espressivo nella ricchezza delle sue sfumature e nel
ventaglio amplissimo dei suoi colori, da parere uno squallido gigione o
quanto meno un eccentrico ragazzone capitato in una petulante riunione di
gente-bene.
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