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Classic Voice, mars 2009 |
Elvio Giudice |
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CARMEN
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Sbrighiamoci
subito del peggio e del poco riuscito. Il peggio e costituito dalla Micaela
qualunque abbastanza mal cantata di Norah Amsellem (acuti spinti di gola, le
grandi arcate dell'aria sempre prossime allo strangolamento stridulo, un si
bemolle alla fine dell'atto di rara perfidia) e dallo spettacolo della
Zambello: folclore da poster turistico completo di asino, pollo, cavallo
nero su cui compare il torero (e sembra indirizzargli il brindisi, tocco di
rara finezza), processione religiosa al quart' atto, festa per turisti
americani in cerca di frisson a buon mercato nel secondo, le nebbioline di
fumo che con molta originalità accompagnano la sortita delle sigaraie. E la
scena sostanzialmente unica di Tanya McCallin, un grosso blocco modulabile
color rosso arancio, risulta in definitiva un corpo a sé poco o punto
integrato nella vicenda. Il poco riuscito riguarda l'Escamillo di Ildebrando
D'Arcangelo, bello da vedere ma sempre in posa col tipico carisma di
plastica del modello pubblicitario, che quando recita sembra finto e quanto
canta spinge parecchio li acuti e gonfia i centri come fossero muscoli da
body building. Ma riguarda altresì spesso la direzione di Pappano, di cui è
riprovevole l'essere un patchwork tra edizione Oeser e Guiraud (ricordando
il suo Don Carlo, i pastrocchi deve evidentemente amarli molto), con parlati
mescolati a recitativi senza che ne siano troppo chiare le motivazioni: e
comunque, foga molta, opulenza fonica moltissima, scialo d'effetti a iosa
che però bordeggiano spesso l'effettaccio, nervosità o charme pochi, niente
asciuttezza ritmica in cui far risaltare i gioielli della strumentazione di
Bizet.
A fronte, un gruppo di parti di fianco memorabili: dizione,
accento, recitazione, musicalità, fanno delle coppie Mercédès-Frasquita
(Viktoria Vizin e Elena Xanthoudakis) e Dancaire-Remendado (Jean-Sébastien
Bou e Jean-Paul Fouchécourt) altrettanti insorpassabili modelli. Ma
la raison d'etre di quest'incisione assolutamente da conoscere, sta nei due
protagonisti.
Lei, Anna Caterina Antonacci, fa "suonare"
divinamente il testo ma sembra lo reciti in prosa (e con accento che i
francesi hanno definito "da Comédie", complimento più unico che raro) tanta
è la fluida naturalezza con cui lo domina. Musicalità, bellezza timbrica
pari a quella fisica, assenza d'ogni sia pur minimo istrionismo, carnosa
sensualità crepitante in ogni frase ma tutta di testa, insinuante, di quelle
che fanno gloriosamente a meno d'ogni affondo uterino e bruciano d'una
fiamma costante, lieve ma pronta ad arroventarsi: qualche nota può esser
fuori posto (la canzone che principia il second'atto, qualche passaggio
della Seguidilla), ma non ce n'e una che non lieviti sotto il carisma vocale
e scenico che contraddistingue l'eccezionale animale da palcoscenico.
Nessuna Carmen, oggi, può esserle paragonata. Come nessun José regge
il paragone con Jonas Kaufmann. Timbro fascinosamente scuro ma con facile
proiezione all'acuto lungo una linea ampia che per essere tutta sul fiato è
compatta, omogenea nel colore, duttile alla più sottile variazione dinamica
o accentale (il si bemolle conclusivo del "fiore", al termine d'una
morbidissima scala semitonale, è smorzato fino al soffio ma
contemporaneamente l'accento lo arroventa sempre di più: magico), con un
ventaglio di colori e chiaroscuri in virtù dei quali la psicologia di José
si delinea e s'evolve con forza comunicativa formidabile ma sempre
nell'alveo d'una scrittura musicale tirata a lucido. Aggiungiamoci la
prestanza e un carisma scenico entrambi allo stesso livello dell'Antonacci,
e tiriamo le somme: Carmen e José di tale livello, ma soprattutto insieme,
quest'opera non li aveva ancora avuti.
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