Operadisc, 09/07/2009
 
CARMEN
Mah.
In un periodo come questo, che vede sempre più l’affermarsi delle edizioni critiche e filologiche, come si collochi questo strano assemblaggio di Pappano targato – e ti pareva – “edizione Oeser”, non è dato sapere.

In un periodo come il presente che pullula di produzioni audaci, entusiasmanti, di cambiamento e taglio con una tradizione stantia, cosa ci stia a fare questo spettacolo della Zambello non è dato capire.

In un periodo come questo, che viene subito dopo il grande dominio sul personaggio di Carmen della personalità aggressiva ed enigmatica di Maria Ewing, cosa cerchi di dire una cantante iperclassica come la pur brava Antonacci non è dato vedere.

Queste sono le perplessità principali che – lo dico subito a scanso di equivoci – gettano un’ipoteca non indifferente sulla riuscita complessiva dello spettacolo e generano interrogativi non banali sul motivo di mettere su disco un’edizione che ha una sua ragione d’esistere solo nell’ambito del teatro.
Approfondiamo le tematiche e partiamo dalla veste editoriale.
Capisco che scegliere un’Oeser completa ti richiede un impegno non indifferente, ma tuttavia: l’interpolazione con alcuni recitativi della vecchia, vecchissima e ammuffita edizione di Guiraud-Choudens è pratica comune di molte messe in scena di Carmen, ma non di meno è abitudine ben bizzarra e, tutto sommato, incongrua. O si sceglie l’una, o si sceglie l’altra, tenendo comunque ben presente che l’edizione coi recitativi, oltre che francamente brutta, è stata ampiamente seppellita dalla Storia i tagli, in un’opera come Carmen, sono ingiustificati. Nel coro delle sigaraie del primo atto viene tagliata, come da orribile tradizione, tutta la parte dell’intervento delle voci basse “Sains faire le cruelles”. Nel duetto José-Micaela, sempre del primo atto, viene tagliata tutta la sezione che va da “Qui sait de quel demon j’allais etre la proie” sino alla fine. Nel secondo atto, l’ingresso di José “Ou vas-tu, passe là, Dragon d’Alcalà” è sviluppata su una sola strofa. Nella scena José-Escamillo del terzo atto, il colpo di genio di Pappano, giusto per dimostrare che è diverso da tutti gli altri che tagliano tutto ciò che va da “Je la connais ta garde navarraise” - quello cioè che dovrebbe dimostrare la magnanimità di Escamillo che salva la vita a José – sino alla fine. Lui la mantiene, ed è un bene, ma cancella invece tutta la prima parte, quella di “Quel maladresse, j’en rirais vraiment” e credo che sia l’unico a farlo. Cancella poi una buona parte di tutta la scena di popolo che introduce il quarto atto, iniziando direttamente dalla ripresa del tema dell’Ouverture. Insomma, un pasticcio inspiegabile se non con il solito ego ipertrofico di un bravo direttore che, probabilmente, ha deciso di dare la propria impronta ad un capolavoro che invece ha gambe sufficientemente forti per camminare da sé. Oltre a tutto, sarebbe ora di cominciare ad istituzionalizzare le revisioni critiche, il che vale anche per i “Contes d’Hoffmann”, altra partitura di cui nessuno sembra in grado di identificare una versione definitiva, col risultato che si continua ad allestire la vecchia versione, anch’essa ormai impresentabile

Per quanto riguarda la regia di Francesca Zambello, il discorso è molto semplice e si riduce ad un aggettivo: impresentabile. In scena c’è il solito bozzetto oleografico che manda tanto in solluchero gli appassionati di fondali dipinti. Carmen si mette il gambo del fiore in bocca come faceva Gabriella Besanzoni negli Anni Trenta, il che lascia presagire il peggio per il prosieguo della recita, ma la Antonacci fortunatamente sa camminare con le sue (belle) gambe e non ha bisogno che glielo insegni un regista; Kaufmann, fortunatamente non è da meno, ma gli altri si rifugiano nel solito guardaroba di gesti stereotipati per le rispettive parti. Escamillo arriva a cavallo d’un caval e fa le solite manfrine; Micaela ha la sua trecciona regolamentare e passa i tre quarti del suo tempo con le manine giunte (e poi ci si meraviglia che José le preferisca un puttanone esagerato). Certo, ogni tanto qualcuno scende da un muro reggendosi ad una corda, giusto per dare un tocco di originalità al tutto, ma questo non basta a configurare una prestazione registica all’altezza della situazione.

Infine, chiudiamo la catena delle perplessità maggiori con Anna Caterina Antonacci. Siamo d’accordo, c’è poco da fare gli schizzinosi: la cantante ferrarese è uno dei pochissimi esemplari da esportazione che abbiamo in questo momento in Italia. È brava, è intelligente, canta bene, con gusto, si muove flessuosa come una pantera, sa stare in scena con la padronanza di una regina. Il registro vocale è abbastanza anfibio e per un ruolo del genere ci sta benissimo. Però, se pensiamo alla maggior interprete di Carmen degli ultimi vent’anni – Maria Ewing – sembra di fare un passo indietro non indifferente. La Ewing era scontrosa, misteriosa, imbronciata, sensuale, chiusa in un abisso insondabile; l’Antonacci sembra preferire strade più classiche da femme fatale, le riesce molto bene (il modo in cui si siede sulla faccia di José nel secondo atto è indimenticabile) ma, artisticamente, è un bel passo indietro. Con tutto ciò, mi ha fatto impazzire il suo “Taratatà!” di scherno a José: mai visto fare così bene!

Eppure, a fronte di queste perplessità non indifferenti, ecco il colpo di genio, quello per cui in effetti vale veramente la pena di prendere questa registrazione: la prestazione maiuscola di Jonas Kaufmann, ormai definitivamente sul trono del Più Grande Tenore del Mondo che, come al solito, si ritaglia un personaggio che esce dagli schemi, che rinuncia a fare la voce grossa, che sussurra invece di gridare, che smorza e sfuma il suo vocione come non riesce praticamente a nessun altro al mondo in questo momento. Il si bemolle del “Fiore” è abbordato in pianissimo, come è prescritto e come dovrebbe essere sempre (lo fa anche Andrew Richards, ma non così splendidamente), ma non è l’unico preziosismo giacché di queste bellurie è prodigo sin dal momento del duetto con Micaela. La scena finale, poi, è un autentico capolavoro di intuizioni interpretative, a fronte delle quali le scelte di Anna Caterina Antonacci appaiono più convenzionali. Grande cantante, sempre più bravo e coinvolgente.

Gli altri non sono così straordinari. Ildebrando D’Arcangelo è molto bravo: canta benissimo con splendida voce di basso-baritono, probabilmente il migliore che ci sia nel repertorio italiano-francese, ma con una certa tendenza al colorismo che, se coltivata adeguatamente, potrebbe fare di lui un buon declamatore potenzialmente adatto anche ai ruoli wagneriani. Anche lui si muove con proprietà, ma il suo personaggio è particolarmente ignorato dalla regista.

Mi delude notevolmente la potenzialmente brava Norah Amsellem che canta una Micaela senza un briciolo di sale, anche se formalmente pressoché corretta o vicina alla correttezza.
Degli altri, segnalerei il Dancaire nervoso come una faina di Jean-Sebastien Bou e la vocalmente affascinante Mercedes di Viktoria Vizin, mentre mi sembra ampiamente censurabile la Frasquita di Elena Xanthoudakis.

In conclusione, una produzione che vale soprattutto per la presenza carismatica di Kaufmann e per quella per nulla banale dell’Antonacci, ma complessivamente non particolarmente memorable per tutto il resto. Direzione fracassona e troppo prodiga di forbice. Regia inesistente. Di questi tempi, forse un po’ troppo poco
 






 
 
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