|
|
|
|
|
Classic Voice, 7/8, 2012 |
Elvio Giudici |
|
Ciléa Adriana Lecouvreur *****
|
|
Ecco
uno spettacolo che sollecita diverse considerazioni in merito a come si
possa - e dunque, per li rami, si debba - mettere in scena il melodramma
italiano: il presente titolo indurrebbe a riferirsi a quello primo
novecentesco, ma il discorso muta ben poco anche per il resto. In linea di
massima, negli ultimi anni due i fronti l'un contro l'altro armati. Da una
parte "l'eleganza" più o meno stilizzata ma comunque sempre figurativa,
dunque a tasso minimo di regia modernamente intesa: questa in sostanza
esaurendosi nell'impianto scenico e nei costumi, il movimento ridotto a un
mero incedere, pur esso il più elegante possibile in nome di quella
"nobiltà"che da noi - va a sapere perché - s'è ritenuto essere connaturata
al melodramma. Dall'altra, una destrutturazione drammaturgica con successivo
darsi di due casi: ristrutturazione in contesti diversi che, nelle
intenzioni, dovrebbero chiarire meglio le situazioni e i personaggi
avvicinandone le problematiche alle nostre contemporanee; oppure, il
permanere di tale destrutturazione in una serie di quiz di soluzione non
facile quantunque sempre intrigante, per lo meno all'appassionato di teatro
in quanto tale.
Oggi, in paesi teatralmente più avanzati del nostro
è in pieno svolgimento una sorta di superamento di entrambe tali posizioni,
che recuperino il meglio tanto dell'una quanto dell'altra: all'insegna d'un
teatro che in linea di massima va sempre più accettando la struttura
drammaturgica di base (intesa come storia), però la svolge attraverso una
minuta, spesso minutissima analisi gestuale. Che la svincola completamente
dagli antichi stereotipi codificati dal culto divistico della primadonna
"atteggiata" tanto nelle pose sceniche sistematicamente sopra le righe
(perché una Diva deve sempre sottolineare il proprio status), quanto -
soprattutto - nell'accento che logicamente ne deriva: anch'esso sopra le
righe qualunque cosa si vada dicendo, sicché anche la più innocua frase di
raccordo finisce col caricarsi di chissà mai quale risvolto tragico che la
rende invece ridicolissima.
Fino a qualche tempo fa, ero convinto
che alcune semplificazioni all'insegna dell'idiomaticità fossero banali e
superate sciocchezze: ma forse debbo ricredermi, almeno oggi. E dunque,
credo sia vero che gli italiani - forti del loro illustrissimo passato in
materia di tele dipinte - decorino meglio degli altri. Che i francesi -
forti delle loro tragedie in alessandrini - pontifichino meglio di chiunque
altro. Che i tedeschi, nessuno li batta per analizzare, sminuzzare,
indagare, sviscerare, tanto presi dal destrutturare da dimenticarsi spesso
di ricomporre i pezzi del puzzle lasciandoli allineati in bella però un filo
sterile mostra. Ma gli anglosassoni - con la loro ferrea tradizione del
romanzo e del teatro recitato - come sanno raccontare loro, nessuno.
Naturalmente, c'è chi si limita a raccontare con solido mestiere, che però
la bravura sempre altissima di quanti agiscono sulla scena (sia essa di
prosa o lirica) rende comunque di forte consistenza teatrale. E
naturalmente, ci sono i registi inglesi molto bravi, in numero rilevante: da
Jonathan Miller a Peter Hall, da David Pountney a David Freeman, da Nicholas
Hytner a Keith Warner. Ci sono i fuoriclasse come Graham Vick, David Alden,
Deborah Warner. E poi ci sono i geni, più rari com'è ovvio: tra questi, dopo
il glorioso capostipite Peter Brook si sono a mio avviso ritagliati posti di
riguardo Peter Sellars, Robert Carsen (canadese ma cresciuto in area
anglosassone), Richard Jones, David McVicar. Il quale McVicar è forse non il
più geniale ma probabilmente il più estroso, eclettico e, in quanto il più
curioso, il più imprevedibile di tutti.
Adriana Lecouvreur mancava a
Londra dalla bellezza di un secolo. È opera molto scabrosa nel suo essere
irta di frasi reboanti affidate però a musica sottile, quasi evanescente ma
capace d'imprimersi nella memoria, così da imporre il ricordo di parole su
cui invece sarebbe meglio stendere un velo d'oblio. Opera che mescola teatro
e salotto nobiliare; un bellimbusto di soldataccio aspirante a un
improbabilissimo trono (di Curlandia, figuriamoci) e una grande attrice, che
però non vediamo al lavoro bensì sempre e solo nel privato, e che quando
declama Fedra pensa ai casi suoi privatissimi, non certo per impartire una
lezioncina di retorica a quattro sciamannati di nobili; un vecchietto
bonario e melanconico, attorniato da fauna teatrale schiamazzante e
saltellante; amanti che si rimpiattano, riappaiono, non sono riconosciute,
però declamano versi da tragedia classica formato bigino per poi scovare
improbabili quanto micidiali veleni, che uccidono lentamente consentendo
intriganti deliqui canori.
Opera, insomma, bella da dirigere perché
è molto ben fatta, e splendida da cantare: ma un disastro da mettere in
scena ove per caso s'intenda amalgamare tante componenti evitando che la
maionese impazzisca com'è avvenuto praticamente sempre. Fino adesso. Fin
quando cioè McVicar l'ha presa in mano, ne ha rispettato fin l'ultimo
risvolto di trama e ambientazione, ma l'ha nondimeno rivoltata come un
calzino per ciò che concerne la gestualità, quindi il carattere impresso ai
personaggi, quindi in ultima analisi la vicenda raccontata: che scopriamo
possa addirittura legarsi a filo doppio al grande teatro inglese in costume,
da quello degli autori elisabettiani a quello di William Congreve, Richard
Steele, Oliver Goldsmith, Charles Johnson, Richard Sheridan. Testi a
rappresentare i quali la recitazione è l'unico elemento che davvero conti: e
McVicar dimostra quanto un approccio del genere giovi a un 'opera come
Adriana.
Certo, sapeva già di poter contare su due protagonisti quali
Gheorghiu e Kaufmann - giovani, belli, bravi nello stare in scena - e quindi
ha potuto aver mano libera: come che sia, ne sono venuti fuori due
personaggi sostanzialmente inediti. Maurizio diventa un fatuo soldataccio
molto macho, che ridendo mette le mani sotto le gonne e il naso dentro le
scollature, si lancia in rodomontate poetiche affidandole a mezze voci che
nel dire quanto dicono si tingono per contrasto di sottile, giocosa ironia
(e mai il "Dio, quante belle frasi" di Adriana è parso tanto calzante): a
fronte, Adriana non è la solita diva imparruccata e sussiegosa, tutta pose
matronali e seriosissime, bensì una giovane donna non meno facile alla
sensualità di quanto sia lui, entrambi però spontanei, capaci di
dimenticarsi di tutto e di tutti per inseguirsi, abbracciarsi, baciarsi in
modo rapinoso ma sempre con un sottofondo di gioco che dipinge un rapporto
all'inizio molto e solo erotico, ma via via più serio, quasi prendesse a
entrambi la mano. II tutto, in una comice scenica che esalta la funzione del
teatro quale specchio della vita. Tutti gli atti presentano difatti due
ambienti distinti, quello al proscenio e un altro sopraelevato cui s'accede
per due scale elicoidali: nel primo si svolge l'azione vera e propria, che
il secondo provvede a contrappuntare svolgendo una funzione da teatro nel
teatro. Primo e ultimo atto dietro le quinte, in un camerino-salotto sopra
il quale giganteggia un palcoscenico visto da dietro, con le sue filiere di
luci; second'atto che sopra un salottino rococò ha un pianerottolo con tende
e grandi colonne palesemente dipinte, tra le quali s'aprono usci segreti
tanto cari al teatro boulevardier del "cielo, mio marito!"; terz'atto nel
quale un salotto un po' più ricco è sovrastato da un teatro vero e proprio
in stile Bibiena, con le sue quinte in prospettiva per accogliere balletto e
monologo. Ma la cosa essenziale è che una scena siffatta è pensata per
esaltare una recitazione minuta, attraverso la quale si definiscono con
strepitosa efficacia dapprima tipi e usi del teatro settecentesco riassunto
nel busto di Molière piazzato al centro del proscenio (mai visto un
prim'atto costruito su simile profluvio di notazioni realistiche, ironiche
ma nel contempo abbastanza tragiche nel mostrare in sostanza una disperata
lotta per sopravvivere: ricordiamo Tom Jones, oppure Moll Flanders, o la
Fiera della vanità? Ecco, sia mo da quelle parti. E quanto ci si sta bene!);
poi una certa società (valgono le identiche considerazioni); infine i
personaggi, che emergono con una verità e uno sbalzo quali ancora non
avevano non dico avuto, ma neppure sospettato. Con un tocco sublime di genio
riservato proprio per le ultime battute: quando Adriana muore sulle tavole
del palcoscenico "reale", sul palco rialzato in fondo - quello cioè della
finzione, ma che una volta di più si rivela l'unica verità autentica -
avanzano i teatranti in costume, s'allineano sul "loro" proscenio, e
togliendosi gli esotici copricapo s'inchinano per l'estremo omaggio alla
loro primadonna.
La fluidità di racconto, McVicar l'ottiene sia col
profluvio di piccoli e piccolissimi gesti (nessuno dei quali inutile
cincischio, bensì utile a definire qualcosa; e tutti adesi come un guanto a
una corrispettiva nota), sia col non fare mai né entrare né stare un
personaggio in una scena vuota, bensì come logica conseguenza dell'uscire di
un altro nel primo caso, oppure contrappuntando un momento solistico con le
mute controscene di qualcuno fatto restare in scena: in modo precipuo
Michonnet, muto e dolente testimone della parabola di Adriana, ivi compreso
un "Poveri fiori" nel quale la Gheorghiu accetta - e nel complesso vince -
la temibile sfida di cantarlo avendo davanti la straordinaria mimica di
Corbelli. Ma le scene tra Adriana e Maurizio, tutte sottese di sesso
esplosivo; tra Maurizio e la Bouillon, nella quale lui non perde l'occasione
offerta da un decolleté ipergeneroso nel quale - già che si trova lì, e dato
che ogni lasciata è persa - immerge la faccia badando a convincersi
d'annoiarsi; la prima parte del mortale delirio di Adriana, che un Maurizio
indulgente e tutto sorriso fascinoso sembra prendere dapprima per un
vaneggiamento mattutino della Gran Diva con cui avere pazienza; il profluvio
di ruoli muti - c'è persino la pluricitata Duclos! - coi quali si movimenta
in coreografia sapientissima il teatro del prim'atto e il salotto del terzo
(decisamente, nessuno batte gli inglesi negli sceneggiati d'epoca: e questo
ne è un formidabile concentrato); perfino quell'ignominiosa caccola del
"russo Mencikoff", si riscatta quanto meno sulla scena - in musica non è
possibile - nell'essere trattata non quale inno nazionale bensì quale
sberleffo a un'accozzaglia di vecchi bavosi e vecchie in fregola: tutta la
vicenda, insomma, screziandosi di beneficissima ironia, vede i molti
intermezzi tra una scena madre e l'altra assumere il compito di necessarie
diastoli per rendere più efficaci le sistoli tragiche. Questa sì, che si
chiama regia: perché rende teatro autentico quanto altrimenti rischia grosso
d'essere un'accozzaglia di belle frasi melodiche inframmezzate da tunnel
vuoti. Molti vanno insinuando che McVicar ha "perso il tocco", perché spesso
sta facendo teatro in costume; perché racconta esattamente la vicenda
leggibile nel libretto; e perché lo fa con chiarezza e immediata, totale
comunicativa. Vero, fa proprio così. Ma se provassimo a istituire un
parallelo scena per scena con gli spettacoli di De Tomasi, Copley, Mariani,
Stefanutti, Lamos che negli ultimi cinquant'anni hanno retto nel mondo la
storia scenica dell'opera? Anche la regia di Puggelli, la migliore e che
pure parte da analogo intento di allacciare la vicenda ad un astratto
concetto di teatro, al confronto pare tentativo volonteroso ma banale. Sono
i piccoli gesti, che nel minuto sommarsi rendono efficace - anziché solo
melodrammaticamente bombastico - il Gran Gesto, a fare la differenza. No,
McVicar non è decotto: se qualcuno rischia di non vederlo più, non è perché
è rimasto indietro, ma perché è troppo avanti sulla strada del teatro
veramente moderno.
Così come la direzione di Mark Elder è
modernissima nel suo analogo stingere in ironia e giocosa schermaglia
amorosa gli incontri di Maurizio con Adriana e, fino a un certo punto, con
la Bouillon; nel suo spumeggiare con l'orchestra sotto al chiacchiericcio
dei teatranti; nell'accompagnare con sapida ironia non solo Mencikoff ma
anche il ballo, musiche orrende che possono riscattarsi e prender senso solo
se avvolte nello scherzo salottiero (splendida, al riguardo, la coreografia
"dilettantesca" di Andrew George); ma anche nello stringere un po' le
briglie al deliquescente estenuarsi del melodizzare di Cilea che - a furia
di esaltarne le volute liberty immergendole in delicata luce d'opaline - si
rischia di vederle svaporare laddove possiedono (possederebbero) ben solide
nervature di verità umana. Tanto la regia quanto la direzione, in stretta
simbiosi reciproca, esaltano un cast del quale la prima virtù consiste
nell'essere per l'appunto - all'inglese - molto più una vera e
affiatatissima compagnia che un raduno di star preoccupate del loro singolo
orticello vocale.
Angela Gheorghiu di rado m'è apparsa tanto brava.
Vero, qualche affondo sotto il rigo è un tantino aperto; vero, il declamato
non è la sua tazza di tè (e le sfugge, nel monologo, l'intento "privato" che
la regia metterebbe invece in luce; però si riscatta concludendolo con due
vibranti la bemolli e due raggianti la naturali, in luogo delle stridule
urlatine che tanto spesso s'ascoltano); vero, qualche artefatto trucchetto
qua e là fa capolino: ma la linea vocale è solida, ben proiettata e
benissimo controllata da una musicalità di natura strumentale che le
consente rarefazioni, assottigliamenti, rinforzi, un lavoro insomma
eccezionale di dinamica, che dal personaggio tira via tanto la cipria del
manierismo quanto la polvere della retorica, di quel "far Diva" che lungi
dal valorizzarlo hanno contribuito invece a banalizzarlo e soprattutto ad
invecchiarlo. Questo, di conserva all'ottima recitazione e, perché no?, del
fisico: ne sorte un'Adriana straordinariamente riuscita.
Così
come Kaufmann - una volta di più - rivolta come un vecchio calzino il
proprio personaggio. Ne fa un fascinoso mascalzone lavorando su mezzevoci
quasi incredibili (sìssì, d'accordo: qualche sospetto di falsetto fa
capolino, ma a mio parere ci sta benissimo perché la lieve falsità vocale
finisce col sottolineare la fatua ironia del suo eloquio) che trapassano in
subitanei abbandoni di virile incisività, cui molto contribuisce quel suo
compatto timbro brunito, e moltissimo la vasta tavolozza cromatica di cui
sostanzia un fraseggio straordinariamente ricco di sfumature, ciascuna col
corrispondente gestuale a completarla nella direzione d'una giovanile,
travolgente spontaneità. Insieme alla Gheorghiu (che l'inizia con un superbo
"Poveri fiori"), l'intero quart'atto è un memorabile capolavoro, apice il
duettino "No, la mia fronte" tutto alitato sul soffio d'una mezzavoce che il
suo galleggiare sempre sul fiato rende però corposa e timbratissima.
La Borodina è un po' imbalenita, a fronte d'una voce viceversa alquanto
smagrita: però non sbraca nello scendere sotto al rigo, canta sempre
(persino i tre fa di "Restate", affidati a un gelido ancorché ansioso
sussurro), gli acuti sono ancora solidi e timbrati, e il confronto tanto
fisico quanto vocale tra la sua matronale Bouillon e la fatua virilità di
Maurizio è qualcosa che di sicuro non s'era mai visto. Corbelli è Corbelli:
un attore che recita e fraseggia all'inglese (quelli che credono fermamente
nella regola scenica del less is more, meno fai e meglio riesci) ma che
canta all'italiana, benissimo e col timbro magnifico che gli è proprio.
Perfetti tutti i ruoli di fianco, magnifica la recitazione d'ogni componente
del coro nel salotto della Bouillon, che anziché la solita masnada di
sgarrupati stereotipati è qui uno spaccato di società settecentesca che
starebbe a meraviglia anche in un ipotetico sceneggiato della Mera delle
vanità di William Thackeray.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|