Il colpo diretto, quello che avrebbe potuto mettere a tacere tutta
l’acredine delle polemiche estive sorte intorno alla sua nomina a Presidente
del Festival Pucciniano, Alberto Veronesi ha sicuramente cercato di
sferrarlo, anche se il risultato, per quanto apprezzabile, non è stato di
quelli tali da mandare definitivamente al tappeto avversari e detrattori.
L’annuncio, un mese fa circa, che Jonas Kaufman, il tenore più richiesto e
pagato del momento sarebbe venuto a Torre del Lago per ricevere il 44°
Premio Puccini era rimbalzato immediatamente fra i vari social ottenendo
vasta eco anche all’estero, effetto impensabile per la stragrande
maggioranza delle sonnacchiose edizioni degli ultimi anni, con melomani
subito dichiaratisi disposti a fare centinaia di chilometri e a pagare un
biglietto d’ingresso non indifferente pur di vedere il divo. E appunto di
vedere, e non di ascoltare, si è trattato. Capisco appieno la delusione
degli ammiratori, ma i comunicati stampa non avevano mai menzionato la
possibilità che il tenore avrebbe cantato. È comprensibile il “wishful
thinking, espressione intraducibile che però rende a meraviglia il desiderio
che avvenga qualcosa che si sa esser irrealizzabile o altamente improbabile,
degli ammiratori del tenore tedesco, ma era pressoché inverosimile che
Kaufmann aprisse bocca per cantare; la conferma si è avuta dal comportamento
della manager che pur non essendo sul palcoscenico dirigeva l’azione con un
linguaggio del corpo e gesti che non ammettevano repliche. Prima dell’arrivo
del premiato, arrivato con un’ora esatta di ritardo a causa di un volo da
Parigi non partito in orario (questa almeno la versione ufficiale), il
presentatore Enrico Stinchelli ha fatto buon uso di tutta la sua esperienza
per calmare ed intrattenere il pubblico certamente non troppo ben disposto
dopo che per un’ora intera era stato tenuto all’oscuro di tutto; è venuto
poi il momento dell’esibizione di un quintetto di giovani artisti che hanno
preso parte all’Accademia del Festival Puccini, accompagnati al piano da
Massimo Morelli. Fra loro il più maturo è parso il baritono Raffaele Raffio
che ha interpretato l’aria di Michele dal Tabarro con bel timbro, fraseggio
articolato e notevole senso ritmico. Le voci gravi, è ben risaputo, non
erano molto amate da Puccini, per cui la scelta di un basso dovrà per forza
di cose cadere su “Vecchia zimarra” dalla Bohème, intonata con molte
acerbità da Davide Mura; ancora più ristretto il repertorio di un
mezzosoprano, che ha costretto Carlotta Vichi a piombare negli abissi del
breve monologo della Zia Principessa in Suor Angelica, davvero troppo grave
per una vocalità ben emessa e sicuramente interessante e da seguire, ma non
del tutto a proprio agio in quelle profondità contraltili. Considerato il
profluvio di arie scritte per soprano, la decisione di Francesca Cappelletti
di cantare “O mio babbino caro” da Gianni Schicchi è un po’ come se un
soprano si presentasse ad un concerto dedicato a Mozart con una delle arie
di Despina: in ogni caso non è sembrata pronta per la grande ribalta. Il
tenore Simone Di Giulio, che ha offerto “Ch’ella mi creda” dalla Fanciulla
del West ha messo in luce un materiale naturale di un valore che tuttavia
necessita ancora di seria levigazione e messa a fuoco. Alla fine della
serata i cinque cantanti hanno interpretato una riduzione del finale della
Bohéme, a partire dal duetto Rodolfo/Marcello sino alla conclusione, e data
la mancanza di un altro soprano Carlotta Vichi ha cantato i brevi
interventi, tutti di tessitura medio grave di Musetta. Nonostante quanto sia
stato detto in palcoscenico, la prima Musetta non era però un mezzosoprano:
Camilla Pasini, la creatrice del ruolo, era infatti un soprano che aveva in
repertorio Violetta, Norina, Suzel e persino Tosca, Elsa e Wally;
probabilmente la confusione è nata dal fatto che una sorella della cantante,
Enrica, era stata un mezzosoprano di una certa fama (e per finire, una terza
sorella, Lina ebbe una buona carriera da soprano wagneriano). L’altra
offerta musicale è stata l’esecuzione di Sandro Ivo Bartoli di “Piccolo
Valzer”, un breve brano per pianoforte composto da Puccini nel 1894 in
occasione del varo della nave da guerra “Re Umberto”, e che altro non è se
non il Premio Puccini a Kaufmann“Valzer di Musetta” staccato con un tempo
ancora più lento, e poco più tardi riciclato in Bohème. Nel frattempo era
arrivato il divo, annunciato da un video di “E lucevan le stelle” proiettato
su un maxi schermo. Se non ha cantato, ha comunque dimostrato di aver la
lingua sciolta e una sorprendente padronanza della lingua italiana, appresa,
come ha ricordato, da piccolo durante le numerose vacanze sulle spiagge
italiane. Non si è risparmiato, dimostrandosi abile conversatore non privo
di uno spiccato senso dell’umorismo, ha risposto a (quasi) tutte le domande
di Stinchelli, che ha cercato di strappargli dichiarazioni pro o contro il
teatro di regia, cui Kaufmann ha diplomaticamente dichiarato che secondo lui
ci sono compositori come Wagner, Mozart e Strauss che tollerano maggiormente
allestimenti non tradizionali, e che comunque anche per Verdi o Puccini,
nonostante adesso si trovi in una posizione di forza superiore a quasi ogni
regista in circolazione, è sempre disposto senza preconcetti a prendere in
considerazione quello che gli propongono di fare, aggiungendo che spesso il
pubblico reagisce in maniera diversa da quello che lui stesso aveva
previsto, nel bene e nel male. Altrettanta diplomazia ha dimostrato allorché
Stinchelli ha ripetutamente cercato di fargli dire il suo parere delle
prestazioni dei giovani cantanti, ed ha infine tenuto una breve masterclass
sulla corretta emissione vocale e sul controllo del fiato, svelando un
piccolo segreto su come sia solito riscaldare la voce (in pratica vocalizzi
“muti” che lo portano in chiave di soprano, l’unico momento in tutta la
serata in cui si è sentita per qualche frazione di secondo la preziosa voce
cantata, o meglio mugolata). Alla fine della premiazione, conferita dal
sindaco di Viareggio Giorgio Del Ghingaro e da Alberto Veronesi, Kaufmann
non si è sottratto alla ressa di ammiratori, facendosi fotografare e
immortalare in “selfie”, ma, come mi è stato da più parti riferito (io non
sono andato sul palco) rifiutandosi di firmare autografi sotto stretta
sorveglianza della manager, nonostante le rimostranze di alcuni spettatori
che con i trenta euro spesi per l’accesso avrebbero desiderato almeno un CD
autografato. Per quanto mi riguarda l’aspetto più stimolante dell’evento è
stato il venire a conoscenza di questa personalità da vero intrattenitore
del tenore; il vero colpaccio Veronesi potrebbe segnarlo convincendolo a
eseguire un concerto durante il Festival: c’è riuscito a suo tempo con Renée
Fleming, quindi chissà…
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